Anima e spirito nella letteratura poetico-sapienziale: Giobbe

Il libro di Giobbe è una vetta della letteratura sapienziale. Il protagonista è divenuto, nel corso dei secoli, un prototipo di atteggiamento di fronte alle vicissitudini dalla vita. Il testo è formato da una serie di monologhi e dialoghi tra Giobbe e i suoi amici. Al loro interno troviamo nefesh e ruah, anima e spirito, termini utilizzati e definiti nel quadro della letteratura poetico-sapienziale ebraica.

L’agiografo, attraverso le parole di Giobbe, fa capire che considera la vita dono divino e l’aver ricevuto questo dono è ciò che caratterizza tutte le creature. La vita umana, e questa è la consapevolezza di Giobbe, si differenzia però rispetto a quella agli altri esseri viventi per il ruah divino che la caratterizza in quanto proveniente direttamente da Dio: «Egli ha in mano l’anima [nefesh] di ogni vivente e il soffio [ve rûaḥ] d’ogni carne umana» (Gb 12, 10). In questo versetto nefesh e ruah sono impiegati assieme per specificare la speciale elezione umana: al creatore appartiene la vita di tutte le creature, ed anche lo spirito – che contraddistingue l’essere umano – è un Suo dono. Quindi la nefesh è ciò che rende vivente ogni essere, mentre il ruah caratterizza l’essere umano.

Giobbe, malgrado le avverse vicissitudini, non rinuncia alla fede e soprattutto non rinnega Dio. È consapevole che la vita che possiede non gli appartiene. In quest’ottica sottolinea nei suoi dialoghi l’importanza del Ruah divino per l’uomo quale scaturigine di vita e non è disposto, seppur in un momento difficile, a misconoscere questa realtà fondamentale: «finché ci sarà in me un soffio di vita, e l’alito di Dio [ve ruah eloah] nelle mie narici, mai le mie labbra diranno falsità» (Gb 27, 3-4). L’uomo ha ricevuto il “respiro”, gli è stata donata la vita attraverso il Ruah – lo Spirito – di Dio.

Nei dialoghi di Giobbe è ribadita la concezione antropologica tradizionale veterotestamentaria, che abbiamo già riscontrato in Genesi, per cui la Ruah di Dio sta all’origine dell’intera realtà umana: «Lo spirito di Dio mi ha creato e il soffio dell’Onnipotente mi dà la vita» (Gb 33, 4). Dio ha però anche posto dei limiti al Suo dono: «Il mio spirito non resterà sempre nell’uomo» (Gen 6, 3). Il respiro di Dio che vivifica non appartiene all’uomo, e, prima o poi questi lo perderà: «se egli richiamasse il suo spirito a sé e a sé ritraesse il suo soffio [ruah venišmāto ēlāyv ye esop], ogni carne morirebbe all’istante e l’uomo ritornerebbe in polvere» (Gb 34, 14-15).

Tanto il movimento del respirare è manifestazione di vita, quanto il rûaḥ nell’uomo è manifestazione dell’incessante azione creatrice di Dio: «ogni carne è sospesa al filo del respiro di Dio; se dovesse cessare il suo continuo intervento creativo che mantiene l’uomo nell’essere, la creatura piomberebbe nel baratro del nulla» (G. RAVASI, Giobbe). Non è dell’uomo possedere in eterno questo dono, prima o poi lo spirito torna a Dio perché è di Dio.

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Bibliografia:

A. BROMBIN, Il respiro dell’anima. Distinzione teologico-filosofica tra anima e spirito, Aracne Editrice, Roma, 2014.

L. A. SCHÖKEL – J. L. SICRE DIAZ, Giobbe commento teologico e letterario, G. BORGONOVO (a cura di), Borla, Roma 1985.

G. RAVASI, Giobbe, Borla, Roma 1979.